Orientamento nei processi formativi

Ornella De Sanctis, Maria D’Ambrosio (Napoli, Liguori, 2011)

Abstract

La stretta connessione tra orientamento e formazione apre una riflessione sulla figura professionale del formatore in quanto orientatore. Il volume fonda le pratiche di orientamento sulla metafora della narrazione e, quindi, su una sottesa e continua ricerca di senso che ciascun processo formativo porta con sé, riconoscendo, dentro il processo di costruzione della conoscenza, l’istanza identitaria di quelli che vi partecipano. Il volume è il risultato di un’attività di formazione – vero e proprio “laboratorio riflessivo” sulle pratiche di orientamento – rivolta a un gruppo di docenti delle scuole medie di I e II grado, programmata all’interno di un accordo-quadro fra l’Università degli Studi Suor Orsola Benincasa di Napoli e la Direzione Scolastica Regionale per la Campania, configuratasi come autentica ricerca partecipativa e collaborativa riferita alle pratiche di orientamento.

Abstract english

The deep relationship between vocational guidance and education opens to a reflection on the professional educator that is vocational guide to. Text proposes narration – and the connected and continuos research of sense linked to the process of education- like a metaphor for vocational guidance practices, to recognize, to which one who participate, the identity implication into the process of construction of knowledge. Text is the result of a specialization course – a reflective laboratory on the vocational guidance practises – that involved teachers from different school of territory of Campania, done in the outline agreement between Università degli Studi Suor Orsola benincasa and Direzione Scolastica Regionale per la Campania and emerging like a collaborating research about vocational guidance practises.

Testo sintesi

Verso una pedagogia del presente: l’origine, l’oriente, l’aurora come ‘urgenza’ formativa. maria d’ambrosio

Quando la formazione è orientamento.

È un vero peccato che lo spettacolo della levata del sole si svolga la mattina presto, perché non ci va nessuno – scriveva Achille Campanile nel suo Se la luna mi porta fortuna – e lo ricordiamo qui perché è proprio verso est che vogliamo volgerci, per recuperare dello ‘spettacolo della levata del sole’ tutta la carica e la magia di un momento, aurorale appunto, in cui il tema della nascita riemerge in tutto il suo valore simbolico e può divenire metafora di un giorno nuovo che chiama ciascuno, ogni giorno e nel quotidiano esistere, a cercare la fonte da cui si è originati, concepiti, per afferrarne le potenzialità non ancora rivelate e metterle in forma, attualizzarle, in un essere di sé non ancora conosciuto. Se però cogliamo solo un aspetto di questo discorso, ci sembra che questo si muova dentro un’immagine che è l’arco della vita, lo stesso arco descritto dal sole dall’alba al tramonto e che sembra avere un suo percorso già definito. Ma Campanile parla del sorgere del sole come di uno spettacolo, per sottolinearne le caratteristiche di evento, per coglierne cioè l’aspetto eccezionale, perché è dentro quel ‘momento’ che è possibile generare il nuovo giorno e quindi anche il nuovo per chi guarda e si appresta ad abitare quel giorno. Andare all’origine ha dunque il senso di un ritorno al principio, al nucleo originario in cui sono espresse le potenzialità e la carica generativa e creativa di cui ciascuno, seppure dimentico, è portatore. La domanda di senso che ciascuno rivolge a se stesso e al proprio esistere – il chi sono io? – si incrocia e intercetta la questione delle origini e delle destinazioni – il ‘da dove vengo?’ e il ‘dove sto andando?’ – così che nell’identità si inscrivano i luoghi, le appartenenze, ma anche le tensioni al nuovo e alla libertà, e quindi si trovi mescolato quello che si è, con tutto quello che non si è ancora e ha da venire. Il legame costitutivo dell’uomo con il mondo porta con sé una irriducibile contraddizione, tutta umana e quindi specie specifica, che fa del legame con il mondo un punto di partenza ma non già quello di arrivo e che dunque ha punti ‘radicali’ come condizione di un nascere e crescere mossi e alimentati dal dubbio, l’incertezza, la scoperta. «Ci sono molteplicità interne e profonde in ognuno di noi» ci ricorda Morin , così che il mistero che ognuno è possa trovare strade possibili per manifestarsi, restando in contatto con quelle profondità inaccessibili dove il molteplice e il genio sono in nuce. Virtualità e non già attualità. L’identità emerge dunque dal profondo e si realizza, si produce, attraverso la relazione con il mondo. È in questa relazione che il pedagogico si insedia, orienta il suo agire, si manifesta, si realizza. Si può dunque affermare che tutto il pedagogico, tutto l’agire formativo, ha necessità di orientarsi, di scegliere e dare senso al proprio stesso agire che è quindi, più o meno consapevolmente, collocato e orientato: ha un’origine, una collocazione, e anche una direzione e un obiettivo. Proprio in questo senso si può parlare di un orientamento formativo, come di quell’agire ‘sensato’ che nutre il nucleo ‘originario’ e mette in forma di dialogo l’identità, la cui natura riflessiva chiede e cerca l’altro come superficie o cavità grazie a cui dar riverbero al Sè. D’altronde la formazione è piena anche di dialoghi o relazioni mancate, di progetti cui, in nome delle ‘buone intenzioni’, ciascuno si affida pensando di farsi portatore e attuatore del ‘vero’, non lasciando riflettere che l’immagine pre-costituita e pre-definita di sé e dell’altro.

Parlare di orientamento formativo ha un altro senso, quello cioè di rendere sensibili ad un oriente da cui si origina una direzione scelta per formarsi e per formare, oriente a cui si può sempre tornare – ed è questo ritorno che qui si vuole amplificare e legittimare – per attingere il senso più pieno della potenzialità e del molteplice e ridefinire continuamente la direzionalità pedagogica, il suo processo e il suo accadere. Quello che un orientamento formativo vuol mettere in crisi è l’immagine dell’identità in vitro per recuperare l’urgenza della identità in vivo, la cui vitalità appunto chiama pure allo scavo, al ritorno, ma come istanza di ri-costruzione e di erranza che spinge a cercare più che a trovare, in un gioco che è come una danza in cui luce e tenebre, Apollo e Dioniso, Kaos e Kosmos, sono uniti in un tutto il cui intreccio produce divenire. Parlare di orientamento formativo e di un oriente della formazione ha quindi proprio la funzione di spostare l’asse del pedagogico dal fine al mezzo, dal prodotto al processo, e di farne una questione ‘radicale’ per ogni formazione possibile così da investire tutto il pedagogico della necessità di rifare e vivere il giorno nuovo. Del cui spettacolo siamo attori oltre che spettatori o, meglio, spettatori nel senso più pieno di chi guarda e partecipa di ciò di cui è testimone. E se abbiamo dato avvio a un discorso sull’orientamento formativo attraverso l’immagine della levata del sole, è per sostare in questo pallido e fuggevole chiarore così da sospendere la fuga in avanti che porta, e sposta come fosse inevitabile, l’attenzione al dopo, al mezzogiorno, al punto più alto e luminoso. Qui ed ora, il presente, sono il tempo con cui vogliamo si possa declinare l’agire formativo. Un tempo che ricorda sempre il momento aurorale, quello dei chiari del bosco di Maria Zambrano . Capace di dilatare e aprire e smuovere e rivelare. Lo stesso tempo che contiene, senza risolverlo, il mistero rispetto a ciò che rimane sommerso, nascosto, e ‘chiama’ da un abisso di cui si scorgono riflessi, riverberi, solo fatui e cangianti, inafferrabili. Un tempo in cui ciò che si manifesta ha una potente qualità: quella di provare a mettere in parola, a comunicare, quello stesso abisso, mistero, profondità, di cui ciascuno è portatore. E anche il tempo, presente appunto, in cui prestare ascolto alla lezione dei chiari del bosco, quella che chiede di rifuggire dal determinato, dal prefigurato, dal risaputo. Il tempo in cui bisogna farsi presenti e non nascondersi dietro l’idea, mistica, morale o metafisica, di rispondere al disegno di un altro, dandogli esecuzione o ‘compimento’. Coniugare l’educazione, la formazione e tutto il pedagogico al tempo presente – riconoscendone tutta la forza aurorale – significa provare a rompere con i vincoli di un tempo pensato come continuum, come linea che lega passato e futuro, significa dunque anche ribaltare o rifiutare gerarchie precostituite, pesi, misure e valori che rendono mera retorica il piano dell’incontro, della relazione, del ‘fare comunità’, piano che qui si vuole ricollocare a fondamento di ogni discorso e pratica pedagogica. Il tempo, quello che si ‘fa’ presente, è anche il tempo dell’accadere, quello in cui, proprio a partire dal farsi presente di ciascuno e quindi dal farsi presente a qualcun altro, le pre-esistenze si mescolano e originano dell’altro, del nuovo, ri-orientano l’agire che non si ‘svolge’, come ad attuare un percorso prestabilito, ma rappresenta la ricerca del senso. Una pedagogia del presente, ‘orientata’, deve vincere la tentazione costituita dal tema stesso dell’origine: tema quanto mai complesso che porta con sé una possibile deriva ‘logica’, la logica del senso, che proprio nell’origine fa coincidere la base solida su cui ‘poggiare’ tutta la conseguente sovrastruttura pedagogica, la ‘radice’ cioè da cui far emergere, estrarre, ‘il’ percorso e ‘la’ pratica educativa e formativa. Pur riconoscendo la legittimità della ‘ragione’ pedagogica, la prospettiva da cui si volge lo sguardo ai contesti educativi e formativi, con particolare interesse in questo caso alla scuola e alla figura dell’insegnante e dell’insegnante-orientatore, è critico-ermeneutica e costituisce una nuova ottica che rifiuta il peso dell’a-priori e si insedia nel dualismo natura-cultura facendo del pedagogico e dell’umano categorie ‘terze’ che non derivano la loro legittimità e legittimazione dalla forza del ‘modello’ della Natura o da quello della Cultura, quanto dalla consapevolezza di una specifica ‘posizione’ nomade che dal confine tra natura e cultura invoca la necessità di ridefinire la ‘disciplina’ pedagogica attraverso un nuovo ordine del discorso, quindi anche attraverso una normatività, teorica e pratica, tutta da farsi e a cui dare vita nel quotidiano (cercare senso all’esistenza), fuori e lontano dallo strapotere conferito da qualche ordine pre-stabilito.

La proposta di una pedagogia del presente, di un sapere e di una pratica calati dentro il tempo e rivolti ad oriente, suona e risuona come il rifiuto di una posizione metafisica e attraverso questo rifiuto entra in contatto con la ricerca storica ed epistemologica e intercetta il ‘problema dell’identità’ – che è l’identità della pedagogia così come l’identità dei soggetti in formazione – come questione trasversale che tocca e interessa anche le questioni ‘meramente’ metodologiche: è una proposta dunque che prende il tempo come condizione dell’esistere e lo declina con il prender forma e la sua pluralità di forme. Dentro questa proposta critico-ermeneutica, il ‘fine’ educativo-formativo si frantuma e si moltiplica così da liberare anche l’orientamento dal peso di aspettative e pre-giudizi che risponderebbero alla funzione disciplinante e normalizzante del pedagogico che qui vuole essere, perlomeno, ri-messa in discussione. In questo senso ci si appropria della decostruzione di Derrida nella ‘lettura’ che ce ne offre Mariani e il suo sguardo pedagogico perché «rompe con la tradizione dell’educare e apre il discorso alla formazione intesa come processo aperto, in fieri, mai concluso e de-finito, sempre in progress e in via di legittimazione etico-politica» . Tale proposta è ‘radicale’. La decostruzione diviene categoria portante dell’agire educativo-formativo e chiede di prendere corpo in chi se ne fa portatore, nel differente che ciascuno rappresenta, chiamato ad interpretare, e non ad eseguire, il progetto formativo che coinvolge il Sé e l’altro, docenti e alunni, il loro possibile incontro, la loro necessaria reciproca apertura, tutto il già noto e già detto mescolato all’ignoto e al sommerso. Perché in nome della decostruzione la ricerca e la riflessione pedagogica possano ritornare al tema dell’identità, sentirne tutta l’urgenza, eppure rivendicare l’adesione alla fenomenologia come metodo che ‘liquida’ il problema della verità e della realtà e ne fa una questione di apparenza e quindi di senso. L’identità, e tutto il processo nel quale si costituisce, è quindi categoria ‘problematica’ e ambigua che contiene, proprio perché sempre in divenire, anche quella del differente. La spinta alla ‘retta via’ – di cui è pregno l’immaginario di un certo orientamento e di una certa educazione e formazione – perde di significato mentre si fa importante il ritorno allo sguardo pedagogico di Mariani su Derrida che ci ricorda che «occorre – e con tempestività – un intervento critico-ermeneutico-decostruttivo che sappia liberare il pedagogico dai condizionamenti della metafisica (dal suo limite e dal suo dominio, che non esitiamo a definire ancestrali) e restituire significato epistemologico al suo orizzonte, cosicchè proprio la formazione, come realizzazione di una forma e di una condizione dell’esistenza, divenga il compito e lo sprone di una rinnovata sensibilità ad interpretare il soggetto come (profondamente) incardinato nella categoria del possibile» . Ed è proprio sul soggetto come (profondamente) incardinato nella categoria del possibile che prende forma qui e si anima una riflessione rivolta a recuperare del pedagogico la sua matrice originaria che ne fa il territorio di un agire orientativo, che avverte l’esigenza di vivere e fare di ogni giorno un evento, quello stesso da cui ha preso avvio questo scritto, proprio per intenderlo in tutta la sua potenziale rigenerazione, e consentire allo sguardo di ciascuno di accogliere la meraviglia e lo stupore verso se stessi e verso gli altri come linfa dell’accadere che si vuole carico della missione formativa. Formare, orientare, ma anche smarrirsi, errare, attraversare e oltrepassare: sono i gesti attraverso cui si consuma o si nutre la quotidiana ricerca che chiede di ‘fare senso’ anche solo allo scorrere della propria vita, a quello che appare, a tutte le storie che vi si intrecciano e dalla cui trama se ne possono ri-tessere tante nuove ancora, inaspettate e sorprendenti. È l’attesa dunque ciò su cui intende intervenire una formazione orientante e un orientamento formativo: quella attesa che esprime già una tensione e uno spostamento verso il punto di arrivo, che allontana ed elimina la forza creativa dell’evento e dell’evento formativo. La necessità pedagogica di un orientamento formativo sta dunque nel peso delle aspettative che allontana dall’attualità germinale del gesto che dà forma e dalla necessità epifanica di ogni esistenza, riduce il problema dell’accadere e proietta nel pre-visto l’accaduto, riducendo la forza creativa e generativa dell’agire e quindi dell’evento educativo e formativo cui, invece, qui si intende dare enfasi e fondamento, proprio collocandosi ad oriente del processo formativo – che è processo di apprendimento, processo di costruzione della conoscenza, processo di costruzione dell’identità – e intendendolo, alla radice, come processo di orientamento. La qualità dell’agire formativo risiede nella matrice orientativa: nella ricerca del senso, nella ricerca del significato . È una ricerca che investe e connota l’umano e che il pedagogico fa sua perché attraverso il senso, docenti e alunni, le comunità educanti, possano rifuggire dalla logica del servo e scegliere quella della sovranità, perché – per dirla con Derrida – «la sovranità non ha identità, non è sé, per-sé, a sé, presso di sé. Per non dominare, cioè per non asservirsi, essa non deve subordinarsi nulla (…), vale a dire non deve subordinarsi a nulla né ad alcuno (…): essa deve spendersi senza riserve, perdersi, perdere conoscenza, perdere la memoria di sé, l’interiorità a sé; contro l’Erinnerung, contro l’avarizia che si assimila il senso, essa deve praticare l’oblio, (…) e, estremo sovvertimento della signoria, non cercare più di farsi riconoscere» .

Il terreno pedagogico va quindi dissodato e preparato al movimento, per accogliere l’opportunità di una prospettiva dell’erranza e dell’oblio, appropriandosene per riconfigurare in primis l’immagine del ‘corpo docente’ attraverso la strutturale trasformazione che implica il prender forma, senza temere il contingente orizzonte temporale, sempre in fieri cioè, della ‘spaziatura’ esistenziale, quanto piuttosto riconoscersi nella differenza come principio e come condizione dell’identità, perché alla ripetizione del Medesimo e dello Stesso si preferisca l’evento e la festa. Non è rassicurante e nemmeno un terreno solido cui tenersi. Non una strada già tracciata che bisogna solo individuare, scegliere e percorrere. Soprattutto quando alle questioni pedagogiche si uniscono quelle più specifiche dell’orientamento e quando, cioè, si ritiene giunto il tempo di rompere, soprattutto in ambito educativo e formativo, con la continuità e con la logica lineare causa-effetto così da superare una didattica intesa come funzionale alle scelte e agli iter formativi e agli eventuali sbocchi lavorativi e professionali (mossi tra obbligo scolastico, diritto allo studio e lifelong learning). In tema di identità diventa nodale la rottura con la continuità – con l’immagine cioè di una ‘realtà’ unitaria da ‘svolgere’ – per assumere la discontinuità e cogliere l’opportunità, urgente, di sottrarsi al potente (e rassicurante) orizzonte del sapere assoluto per esplorare l’efficacia del de-costituire e scegliere il rapporto con il non-sapere, riconoscendo che «il noto è rapportato all’ignoto, il senso al non-senso» . L’orientamento formativo è cifra dunque di un ‘movimento’ da agire oltre le solite contrapposizioni, attraverso un’apertura radicale al senso originario del formare e del formarsi, del conoscere, del sapere, che attiene al rapporto noto-ignoto e non alla loro separazione oppositiva. In tal senso l’orientamento, come la formazione di cui è principio, non si esaurisce nella individuazione del senso (giusto), quanto nella ricerca. La frattura, la trasgressione, la chance, l’avventura, divengono l’humus derridiano dentro cui coltivare pensiero e pratica pedagogica per declinarla con una necessaria incertezza che sottrae l’evento formativo dalla noia ‘evolutiva’, dall’idea stessa di evoluzione, di determinazione, di compiutezza, anticipazione e ripetizione.

Se nel mattino, all’alba, ci siamo collocati, o proviamo a collocarci e a collocare la riflessione pratica dell’agire dei docenti di scuola chiamati pure a fare orientamento, è perché si è colta l’opportunità della forma del risveglio, individuata da Derrida come ‘metodo’, una disciplina, per rifuggire dall’evidenza, ovvero da ciò che indulge nella convenzione e lascia sordi al particolare, al contingente, all’evento e a tutto quello che dal particolare potrebbe generarsi ma non essersi rivelato ancora. «Si rischia di perdere il risultato» avverte Derrida : questa è la posta in gioco se si decide di non sottomettersi all’evidenza del senso e quindi al mero dispiegarsi di una vita per provare invece a legarsi alla forza rigeneratrice dello spettacolo: come lo spettacolo della levata del sole per Achille Campanile, appunto. Lo spettacolo o la rappresentazione di cui Derrida individua la necessità, facendola affiorare dal dialogo tra l’opera (e la fenomenologia) di Hegel e quella di Bataille, per porgere spettacolo e rappresentazione nell’ordine del sacro, della festa, e collocare così il discorso educativo nel silenzio per «attribuire ancora senso, nel discorso, all’assenza di senso» e riconoscere la «necessità dell’impossibile», necessità di ciò che può emergere dall’abbandono del sapere (che è sapere già) e l’insinuarsi e il crescere del principio di responsabilità. Conoscenza e identità sono sottoposti all’oblio, al silenzio, alla perdita di senso, così da rimettere in discussione la stessa conoscenza e la stessa identità, senza esserne asserviti e senza temere di non essere riconosciuti. Il tema e l’emergenza dell’orientamento, dunque, si lega e porta con sé una riflessione nell’ambito della filosofia del soggetto che rompe con la linearità, la ‘logica’ e la continuità, e si insedia dentro il tessuto delle differenze che prova a ridurre la certezza di sé e accogliere un sapere del senso, la sua fenomenicità, come specifico vitale che prova ad evitare di indicare una strada o di attendere che qualcuno lo faccia. Il soggetto, il sé, l’identità, si trovano caricati così di un eccesso di senso (non separato dal non-senso) e ciascuno può sperimentare e attuare, attraverso il tempo, anche l’impensato e l’impensabile. Orientamento e formazione risultano liberate o da liberare perché, per dirla ancora con Derrida, «bisogna uscire fuori dal logos filosofico e pensare l’impensabile» , legittimando la trasgressione, l’eccesso, il gioco, anche come strumenti per praticare, mettere in discorso, una prospettiva orientata e orientante, dove il gesto, l’azione, l’apparire, costituiscono ‘luoghi’ dell’essere e del conoscere. In questo senso i linguaggi divengono un terreno di grande interesse per l’educazione e quindi per un agire formativo orientato che riconosce la tensione significante, anche sul piano dell’identità, di un segno e del legame con altri segni da ‘leggere’ come scrittura e scrittura di sé. Questo non vuol dire fermare, cristallizzare, la verità dell’essere nella sua performance: le tracce lasciate come indizi sono frammenti di una irriducibile molteplicità, tracce che sempre pure si prestano e vengono utilizzate per la valutazione, ma che restano tracce, senza pretesa di totalità né di verità, se «questa scrittura non deve garantirci nulla, non ci dà nessuna certezza, nessun risultato, nessun vantaggio. È assolutamente avventurosa, è una chance e non una tecnica» . Orientamento e formazione, così, si nutrono l’uno dell’altra e si ritrovano unite in un’unica origine, l’aurora appunto, matrice per cogliere del soggetto e della conoscenza i loro passaggi e le loro indeterminazioni – e quindi uno statuto di verità debole – , anche se localizzati in qualche forma di scrittura dalla cui trama si tende a far emergere giudizi e valutazioni: quelli che, restando in territorio scolastico, possono essere usati impropriamente se considerati come immagini attraverso cui cristallizzare soggetto e conoscenza, sottraendoli al loro divenire, e quindi al processo che li anima. Antidoto a questa deriva cristallizzante del giudizio e della valutazione è l’oblìo e il risveglio, la ri-nascita, che la sapiente lezione dei chiari del bosco di Maria Zambrano fa emergere come auspicio e privilegio e con tutta la forza degli inizi. «E così dal sonno e da certi stati di veglia ci si può risvegliare in questo modo privilegiato che è il risveglio senza immagini. Risvegliarsi senza immagine innanzitutto di se stesso, senza alcuna immagine della realtà» . Il risveglio rende esperibile uno spazio di libertà che può qualificare lo spazio formativo come luogo di vita: una acqua in cui l’essere germina . Come in utero. E quindi lo spazio, e il tempo, in cui si dis-conosce, si dimentica, si rinuncia alla meta. E pure al nome e alla parola che de-finisce, modella e sottomette. Il silenzio e l’oblìo aprono e riaprono alla varietà e al possibile, si insinuano come nei vuoti di un testo e non cercano la profezia. Sembra una contraddizione e uno ‘strappo’ all’universo simbolico dell’educativo, del formativo e del pedagogico tutto. Uno strappo necessario alla imponente struttura pedagogica, operato attraverso una logica ermeneutica che fa emergere la centralità dell’attività interpretativa, la sua possibile matrice decostruzionista e la necessaria declinazione al tempo presente. Rinunciare alla figura del docente profetico e recuperare l’urgenza di un docente-orientatore ha qui il valore di una proposta epistemologica e metodologica relativa al processo formativo pensato e agito attraverso una radicale adesione al momento dell’origine che pensa il divenire e non lo cristallizza nell’immagine di scrittura (che risente di una fissità e di una permanenza) quanto nella ri-scrittura e quindi nella dialogicità di un discorso, esso stesso materia viva. Anche quando le domande sono urgenti e suonano come ‘chi sono io?’ e ‘dove vado?’, e cioè quando la tentazione di offrire risposte è molto forte, il sottrarsi dall’offrire destinazioni si offre come opportunità per affermare una vitalità germinale da coltivare e di cui prendersi cura. La formazione e la relazione educativa acquistano così uno spessore e una densità, una responsabilità, che fa parlare del processo di apprendimento come luogo del ‘fare conoscenza’ che è ‘fare esperienza di sé’. In questo senso la formazione è da intendersi come attività orientativa: è attività, processo, evento, in cui riflettere (e dunque rifletter-Si) e far affiorare la concezione intersoggettiva della realtà come dell’identità. La scelta, l’orientamento, la ricerca e la costruzione del senso, chiamano in gioco chi in quell’attività, in quel processo, in quell’evento è coinvolto e prova a riconoscersi e a figurarsi, così che le questioni relative all’identità e all’immagine di sé possano essere colte attraverso il movimento della differenza e dunque anche attraverso lo sguardo dell’altro. Gli echi di un discorso sull’orientamento risuonano dunque fin dentro gli spazi che fin’ora sembravano riservati alla formazione: echi che smuovono e disorientano come succede nei chiari del bosco: «e l’attraversamento dei chiari del bosco ricorda anche il modo in cui si sono percorse le aule. Come i chiari, le aule sono spazi vuoti pronti a venirsi riempiendo uno alla volta, spazi della voce nei quali si apprenderà con l’udito, ossia in modo più immediato che dalla parola scritta, alla quale bisogna per forza restituire accento e voce per sentire che ci viene diretta. Alla parola scritta dobbiamo andare incontro a metà del cammino. Ed essa conserverà sempre l’oggettività e la fissità inanimata di ciò che ormai è stato detto, di ciò che già è in sé e per sé. Mentre con l’udito si riceve la parola, o il gemito, il sussurro che ci è destinato. La voce del destino si ode molto di più di quanto non si vede la figura» . Grazie ai chiari del bosco e alla loro forza suggestiva, pur riconoscendo la necessità e la spinta alla conoscenza e alla conoscenza di sé, è come aver spostato l’attenzione dall’occhio all’orecchio, dal vedere all’ascoltare e al sentire, dalla scrittura alla parola, dall’immagine al suono. Dalla fissità al riverbero. Dalla descrizione alla comprensione. Dalla distanza al contatto e alla relazione. E pure, dalla lucidità alla sofferenza: quella di una ferita aperta oltre la quale ci si può inoltrare e perdere e nascondere.

Una torsione radicale, originata dalla lezione dei chiari del bosco e che continua a risuonare e palpitare come un seme dentro la terra. La caverna di Platone e la selva oscura di Dante sembrano sopraggiungere con forza e sostanziare una opposizione a tale lezione, mentre, lavorando proprio sulla visione, pare scorgersi un ‘Incipit vita nova’ grazie al quale il frammentario, il discontinuo, l’intravisto, sono accettati e legittimati ad abitare lo spazio pedagogico, secondo una logica che integra il pensiero paradigmatico, lineare, formale, ‘positivo’, con il pensiero narrativo, reticolare, comprendente, storico . La riflessione pare giunta a un momento esso stesso di crisi e di discontinuità possibile. Il discorso pedagogico risente di una istanza fecondativa e originaria che tende ad aprire e a far spazio al differente e al nuovo. Soprattutto quando lo stesso discorso pedagogico chiama la scuola e individua nel docente una figura di riferimento rispetto al ‘fare orientamento’, creando attese e premialità che sembrano decidere per un sicuro tecnicismo e un metodo certo, a garanzia di percorsi lineari e senza errori. Ma proprio sull’errore e sull’erranza può cominciare il giorno nuovo, a partire da quei docenti che hanno deciso di riempire di senso la loro ‘funzione strumentale’ riferita all’orientamento e colto l’opportunità di partecipare a un percorso di aggiornamento a partire dal quale si potesse recuperare una funzione strategica e un’alta professionalità rispetto a un ruolo, il loro appunto, quello di docente e pure di orientatore, messo in crisi come l’istituzione cui appartiene. Le ragioni della crisi non sono e non saranno indagate in questo scritto, ma certo il malcontento e un certo disagio generalizzato nella classe docente sono stati un punto di partenza importante per il lavoro complessivo del gruppo in formazione e per la riflessione che ne è scaturita. Il docente-orientatore è emerso ed è stato riconosciuto innanzitutto come soggetto portatore esso stesso del bisogno di orientarsi, di quella necessità cioè di dare senso al fare quotidiano, ai riti e alle pratiche in cui si produce o si consuma la funzione di formatore. Molte dunque sono le ‘ragioni’ di un orientamento formativo, da rintracciare nel nesso orientamento-formazione che sottende un ‘fare formazione’ che contiene ed esprime anche un ‘fare orientamento’, in un senso che è ‘originario’ e che investe l’umano esistere e costituisce una ‘universale’ domanda di senso che ciascuno porta con sé, come l’universale bisogno di Cura di cui ciascuno, pure, è espressione. Se non ci si riconosce in tale domanda di senso e nel bisogno di Cura, il quotidiano agire si logora e si svuota, cristallizzando e mortificando ciascuno in una pretesa e rassicurante predittività e prescrittività che investe identità e conoscenza. Mentre la dimensione orientativa della formazione, così come proposta in questo scritto e dunque nel suo originario legame con l’aurora, può costituire linfa vitale, principio germinale, per ricondurre la funzione del docente nel più ampio alveo delle professioni della Cura.

Non a caso negli spazi dedicati alla riflessione sull’orientamento formativo vengono fatte risuonare le parole del poeta insieme a quelle di Faust.

«Il poeta. Ridammi dunque quei tempi in cui stavo ancora formando me stesso, quando una fonte nuova di canti erompeva ininterrotta, quando nebbie velavano a me il mondo e ogni boccio prometteva miracoli, quando coglievo i mille e mille fiori che empivano a profusione le valli! Non avevo nulla e pur mi bastava: ardente desiderio di verità e la gioia delle illusioni. Ridammi quegli indomabili slanci, la profonda e pur dolorosa felicità, la forza dell’odio, l’impeto dell’amore. Ridammi la mia giovinezza!»

«Faust. Ahimè!, ho studiato a fondo e con ardente zelo, filosofia e giurisprudenza e medicina e, purtroppo, anche teologia. Eccomi qua, povero pazzo, e ne so quanto prima! Vengo chiamato Maestro (…) E scopro che non possiamo sapere nulla! Ciò mi brucia quasi il cuore. (…)

(apre il libro e scopre il segno del Macrocosmo)

Ah! quale gioia scorre improvvisamente, a questa vista, attraverso tutti i miei sensi! Sento un giovanile e sacro ardore di vita percorrermi le vene e i nervi. (…) In questi chiari segni vedo dinnanzi a me, spiegata, la operante natura. Ora soltanto comprendo quello che il saggio dice: “Il mondo degli spiriti non è impenetrabile; il tuo intelletto è chiuso, il tuo cuore è morto! Su, o scolaro, bagna, senza stancartene, il tuo terreno petto nel rosso dell’aurora!”»

E all’aurora facciamo ritorno, al tempo degli inizi, perché orientamento e formazione possano essere colti attraverso la loro comune matrice nell’origine, nelle questioni legate al ‘principio’, al fondamento, alla potenza originaria, così da rivolgere uno sguardo critico verso quelle posizioni e visioni che fanno coincidere il pedagogico con gli obiettivi, il fine, la destinazione, e rintracciano nell’orientamento quella dimensione della formazione che legittima un agire predittivo e prescrittivo che spesso ricalca e rafforza pregiudizi e forme di ghettizzazione sociale e culturale.

Pertanto, e nel segno della giovinezza, di quel giovanile e sacro ardore di vita, nel rosso dell’aurora, ci si appresta a ‘fare giorno’ perché il ritorno tra i banchi e nelle aule risuoni dello slancio del poeta e dell’impeto di Faust.

Ipotesi di ricerca e appunti da un percorso formativo: spunti per una didattica orientante.

Il percorso formativo sull’orientamento come pratica formativa è stato pensato e realizzato anche come un’attività di ricerca. Ad un primo livello, la ricerca si è modulata come attività di riflessione estesa al gruppo in formazione perché ciascuno, in qualità di testimone privilegiato, potesse essere coinvolto nella messa in discussione dell’oggetto di ricerca, l’orientamento nel nostro caso, e ri-costruire un lessico comune a partire dal quale ritornare al quotidiano scolastico con uno sguardo differente capace di attivare una riflessione continua sul portato identitario della professione di insegnante e quindi sulla possibilità di rintracciare l’orientamento all’interno del proprio habitat pedagogico, quindi nella didattica e nella disciplina di insegnamento curriculare. Questo che consideriamo un primo livello di ricerca va ricondotto ad una prospettiva che si riconosce nel quadro epistemologico ermeneutico, critico, fenomenologico attraverso cui si è ripensato l’orientamento declinandolo con la formazione e con il formatore. Proprio per declinare l’orientamento con la formazione e soprattutto con il formatore, la ricerca si è articolata sul piano più esplicito di una riflessione che riuscisse ad essere tale e quindi a far emergere il vissuto di ciascuno degli insegnanti coinvolti rispetto all’orientamento, così da attivare un’esperienza capace di riconfigurare piano identitario, conoscitivo e professionale insieme, allenando ad un lavoro sul sé come necessario ‘spazio’ da aprire e da abitare in ciascuna professione di Cura. In questa architettura generale delineata per la ricerca, la narrazione è la metafora-guida nonché la matrice epistemologica su cui si è costruito l’impianto teorico-pratico di un orientamento possibile. E dunque, proprio a partire dalla narrazione come metafora-guida, il diario di bordo è stato proposto e utilizzato come tecnologia del sè facendo della scrittura una forma di scrittura di sé capace di far emergere del sé, e quindi dell’identità declinata alla prima persona, una natura sfuggevole, mutevole e singolare nel suo apparire e differire. Provando a tenere distante l’ansia di verità e di autenticità, soprattutto se riferiti al sé manifesto ed esposto, i diari di bordo hanno esplicitato e ‘dato sostanza’ ad un metodo di lavoro e ad una prospettiva pedagogica eminentemente riflessiva e dunque critica. Il diario di bordo ha assunto dunque nel percorso formativo e nella ricerca un ruolo importante perché ha configurato e fatto esperire il percorso stesso come vero e proprio laboratorio riflessivo attraverso il quale ‘agire’ il ‘problema’ dell’orientamento e della formazione’. Un ‘laboratorio’ fondato sull’ermeneutica della pratica, grazie al quale costruire e sperimentare nuovo sapere su una pratica quotidiana che talvolta appare consunta e priva di senso e sulla quale, invece, si è potuto tornare a ‘fare senso’. Più che analizzare i contenuti emersi, che pure sono di grande interesse per tracciare e rintracciare elementi di un processo di decostruzione e di ri-scrittura riferito all’orientamento, è importante intenderli come ‘luogo’ possibile di un prender forma che abbiamo collocato in una pedagogia critica, che rende più consapevoli e per questo ‘esperti’ di uno statuto liquido e cangiante riferito all’identità come al sapere, alla realtà come all’altro. Se i diari di bordo sono il simbolo di un lavoro riflessivo, vuol dire anche che in essi si è fatta esperienza viva e attuale della condizione interrogante individuata come la ‘cifra’ esistenziale da riconoscere all’essere, per non ridurre tale tensione e interrogativo a mero transito in vista del prefissato approdo e quindi della risposta. Ricordiamo infatti con la Mortari che «Dal punto di vista fenomenologico riflettere significa, dunque, gettare uno sguardo sul luogo dove si è mentre si pensa, e questo sguardo comprendente ci sottrae dallo stare irriflessivamente incapsulati dentro mondi di pensiero anticipati. Alla tradizione fenomenologica si riconosce, infatti, il merito di aver messo in discussione la tendenza a stare dentro mondi anticipati, ossia dentro costruzioni già date della realtà che impediscono un accesso originario all’esperienza» . L’opportunità e l’importanza di un laboratorio riflessivo sull’orientamento nei processi formativi sono da valutare soprattutto rispetto a chi vi ha preso parte contribuendo col proprio vissuto ad orientare l’orientamento verso nuovi territori semantici che potranno fare da nucleo originario cui attingere nelle pratiche del quotidiano formare e orientare. La lettura e il resoconto dei diari di bordo non va dunque nella direzione di ‘risultati’ tesi a validare questa o quella questione paradigmatica, ma parla di una ricerca che rivendica l’originalità di essere calata e riferita ad uno specifico contesto-comunità che ha fatto del percorso di formazione e di ricerca un’opportunità per animare e comprendere fenomeni e pratiche come l’orientamento, prima intesi solo come ‘dati’ e che ora hanno iniziato a suonare per ciascuno all’interno di una struttura più complessa di sensibilità e di sapere pedagogico, da vivere e ‘realizzare’.

Rileggere il lavoro fatto e i ‘risultati’ prodotti dall’intero percorso di formazione attraverso le ‘tracce’ che ciascuno dei partecipanti ha inteso lasciare nei diari di bordo, ha significato considerare il percorso stesso, dalle sue premesse teoriche alle riflessioni animate e agli interrogativi aperti, una vera e propria attività di ricerca. Mettere in parola e dar voce a questioni che attraversano il lavoro quotidiano dell’insegnante di scuola ha significato per ciascuno dei partecipanti individuare nel percorso uno spazio per provare ad uscire dall’ovvio, dal già detto e dal privo di senso. Uno spazio e soprattutto un ‘metodo’ che da della domanda, della ricerca del significato per dirla con Bruner, la dimensione entro cui collocare ciascuna esistenza e ciascun fenomeno-evento-processo di apprendimento e di formazione. Una dimensione che non può che essere centrale nell’immaginare nello specifico l’orientamento e le sue possibili pratiche, fuori dai mondi anticipati. Per questo ciascun incontro del percorso formativo è stato introdotto da domande, nuclei ‘problematici’ che hanno fatto da suggestione perchè nel gruppo si attivasse una riflessione capace di toccare e smuovere anche punti dati per scontati. Ogni ‘punto’ è diventato punto interrogativo e quindi elemento di lavoro sia individuale che di gruppo. Le domande con le quali si è animato ciascun incontro e che hanno trovato ulteriore eco nei diari, insieme agli altri materiali forniti per strutturare una prospettiva teorica comune, contengono le ipotesi da cui si è partiti e lasciano emergere la ‘visione’ utilizzata per riguardare all’orientamento non solo per riconoscervi la cifra di un momento storico connotato da insicurezza e smarrimento ma soprattutto per riappropriarsi di un senso tutto positivo del disorientamento, in grado di recuperare e affermare la necessità e l’opportunità del possibile e del mutevole, attraverso cui pensare l’orientamento e il processo formativo tout court. Le domande che hanno animato gli incontri formativi e hanno trovato spazio poi anche nei diari di bordo, si sono snodate attorno al presunto nesso formazione-identità e costituiscono un utile piano di analisi rispetto alla ricerca condotta perché attraverso di esse si è inteso ‘sondare’ e verificare’ alcune questioni nodali poste come ipotesi di partenza per una ricerca che può essere considerata ‘sul campo’ perché fatta coinvolgendo direttamente un gruppo di ‘testimoni privilegiati’, relativa all’orientamento e all’immaginario dei docenti rispetto alle pratiche e ai modelli di orientamento.

I materiali raccolti nei diari di bordo e di cui si propone un primo livello di analisi, costituiscono per ciascuno traccia del proprio percorso formativo-riflessivo attivato e vissuto, e dunque ‘misurabile’ e valutabile sul piano che è, insieme, personale e professionale. Se il tema dell’identità è così centrale rispetto all’orientamento, è proprio l’ampia questione dell’identità ad attraversare e toccare i docenti in prima persona nella loro veste di orientatori per poi ricadere sugli alunni da orientare.

In tal senso, e grazie all’utilizzo di sequenze-guida del film La classe , le domande poste sono state:

Ti riconosci in questo primo giorno di scuola?: per iniziare a smuovere vissuti e contesti di riferimento, si è ipotizzato che la scuola nel quotidiano e quindi le resistenze e le insoddisfazioni dei docenti nell’incontro tra colleghi e con gli alunni, insieme alle difficoltà relazionali in aula e alle possibili strategie da attivare sul piano della comunicazione, potessero costituire un piano di ‘risonanza’ per il vissuto di ciascuno dei docenti-ricercatori coinvolti nel percorso. Nei diari e nella discussione in aula è evidente quanto ciascuno abbia attivato un proprio percorso di ‘lettura’ della prima sequenza del film e abbia fatto emergere una propria ‘lista delle priorità’ che può costituire una sorta di ‘agenda politica’ e mappare l’impervio territorio scolastico a partire dal variegato universo dei docenti. Il primo elemento reso oggetto di ricerca, quindi, è proprio una sorta di analisi del contesto scolastico attuale, analisi che si è attivata a partire dagli elementi lasciati emergere dall’ascolto della storia di un altro (in questo caso la storia del film raccontata dal regista). E analisi che ha attivato una riflessione anche sull’immaginario relativo alla figura del docente, sulle aspettative di cui ciascuno è portatore verso se stesso e sui ‘modelli’ di riferimento di cui ciascuno, più o meno consapevolmente, è interprete.

Riconosci un progetto sotteso alla costruzione della relazione educativa?: restando alla prima sequenza del film, si focalizza l’attenzione sulla strategia attivata dal docente in aula per iniziare a creare il gruppo-aula e dare spazio alle specificità di ciascun alunno. La multietnicità della classe di cui si racconta nel film è pretesto per tematizzare la questione dell’attivazione di una relazione che tenga conto dell’altro e quindi della sua specifica appartenenza e della sua più generale differenza. Avendo collocato la formazione nella dimensione relazionale, l’interrogativo posto inizia a smuovere il concetto stesso di relazione, provando a coniugarlo con le possibili declinazioni di un fare relazione che ha il peso del fare formazione nel senso di un dialogo e un ascolto possibili. Porre in questione la relazione educativa ha significato non solo coniugarlo con la progettualità e quindi con le intenzioni del docente quanto anche iniziare a cogliere dell’agire formativo una tensione relazionale che non si dà come prodotto ma come processo. La forza di questa domanda è data inoltre dal contesto rispetto al quale viene posta: l’aula cui il docente del film rivolge la sua progettualità educativa è una congerie di storie, di differenze culturali e personali, che problematizzano la relazione e il senso di comunità che vi è sotteso, così che dalla domanda e dai diversi tentativi di risposta possa emergere e venga decostruita una retorica dietro cui si nascondono le difficoltà del conoscere l’altro e del conoscere se stessi.

Ti è familiare lo stato d’animo del docente?: provando ad andare più a fondo sulle difficoltà relazionali, la terza domanda, che chiude la prima parte degli interventi teorici sulla formazione, di fatto esplicita l’implicanza del docente, la sua centralità, il suo essere parte in gioco: implicanza e centralità che provano a rifigurare l’immaginario del docente e a ricondurlo a un modello ermeneutico di cui si è inteso sondare la significatività all’interno del gruppo dei ricercatori-pratici. La frustrazione e l’insoddisfazione del docente di cui si racconta nella sequenza del film è stata usata nel percorso di formazione e di ricerca come momento topico per rimettere in discussione anche una progettualità educativa che risente di una forte logica lineare, profondamente messa in crisi dalla circolarità, dalla ricorsività e quindi dalla forza metaforica dell’origine cui si è fatto riferimento come prospettiva per ripensare la formazione e dunque la sua dimensione orientativa. La conflittualità e la multiproblematicità della classe di cui si racconta nel film, sono state ‘usate’ per rappresentare un generale disagio attribuito alle nuove generazioni, stavolta, però, estendendo quasi provocatoriamente il disagio alla classe dei docenti. L’ipotesi forte sta nel tirare dentro il discorso sulla qualità e sull’efficacia della formazione il ruolo, le competenze e le conoscenze del docente, la sua storia di vita, perché è dall’incontro della sua storia con quella dei suoi alunni che può generarsi un processo di costruzione della conoscenza e dell’identità, che investe tutti quelli che, in qualche modo e ciascuno quindi con le proprie peculiarità e strumenti, si fanno parte del processo. La domanda quindi sollecita una riflessione ‘radicale’ rispetto all’ipotesi di una pedagogia della presenza e di una pedagogia della differenza.

Saltano gli schemi di un setting scolastico tradizionale: rientra nelle tue esperienze una situazione del genere?: si entra nel vivo della riflessione sulla categoria di relazione connessa a quella di formazione, ‘giocando’ con le metodologie e in particolare, come nella sequenza del film, con quelle che chiamano gli alunni a mettersi nel discorso e a raccontarsi. La resistenza di una delle alunne de la classe e lo scontro che ne nasce con il docente ha l’ulteriore ruolo di focalizzare sulla gestione dei vissuti personali e quindi sulle competenze che il docente può affinare per ‘fare relazione’ senza essere intrusivo né giudice rispetto alla storia degli altri. L’opportunità di far entrare le storie di ciascuno nel contesto scolastico e quindi di legittimare il piano della costruzione dell’identità all’interno di quello relativo alla costruzione della conoscenza, non è di semplice attuazione nè privo di difficoltà, sia per gli insegnanti che per gli alunni. Questa domanda inizia a verificare proprio la percezione che i ricercatori-pratici hanno della dimensione e del portato esistenziale del loro lavoro quotidiano.

Nella costruzione di una relazione significativa, può essere efficace ricorrere ad atteggiamenti di tipo tradizionale?: contesti, tempi e forme della relazione concorrono a rendere più o meno significativa l’esperienza formativa perché come tale si configuri e perché dunque possa agire sulla formazione, ovvero sulla trasformazione, espressa in termini di sapere e di identità. La sequenza del film in cui il docente, dopo lo scontro in classe con l’alunna, sente il bisogno di un dialogo riservato in cui prova a rivendicare il suo ruolo e la sua autorità educativa, è occasione per porre come domanda l’efficacia di metodi più tradizionali fondati sulla asimmetria del rapporto insegnante-alunno. La domanda è modulata sempre all’interno del nucleo tematico della relazione che il percorso formativo e di ricerca ha inteso indagare come ‘oggetto’ di studio e di riflessione comune. Ma la domanda ha dentro un’altra ipotesi di fondo che ruota intorno alla reciprocità della relazione e ai modi di una reciprocità possibile, stante la differenza dei ruoli e stante la differenza tra le storie in gioco. Il discorso è piegato in particolare sui rapporti e sui conflitti intergenerazionali e la domanda prova a far emergere e mappare pregiudizi e pratiche consolidate nel quotidiano scolastico, che ostacolano l’attivazione di un ‘reale’ processo di cambiamento che investa la visione del mondo e la visione di sé. La domanda intende sollecitare una riflessione sulla variabilità delle pratiche educative e sulla loro situatività così che l’ambizione dialogica e relazionale non si irrigidisca su procedure e ‘protocolli d’intervento’ ma sappia agire ‘sensatamente’ e quindi tenendo conto di quanto accade e di quanto le risposte e le metodologie siano modulabili nel ‘qui ed ora’ e possano attingere alle enormi risorse di cui ciascun docente è portatore.

Quali condizioni ha creato il docente per influenzare le trasformazioni del comportamento dell’alunna?: l’alunna che si è scontrata con l’insegnante gli scrive una lettera molto intima che attiva una apertura che costituisce una condizione di apertura e quindi di comunicazione e relazione possibile. La domanda fa ritorno sul conflitto e sullo scontro provando a leggere nel sottotesto di quello scambio tutta la tensione relazionale di cui è carico ciascuno. La domanda prova dunque a ipotizzare che nella progettualità educativa siano sempre contemplati l’aspetto disciplinare e quello relazionale. Una domanda che è dunque anche un’ipotesi di lavoro rispetto alla configurazione del formatore come orientatore, perché riconosce un implicito ma fondamentale piano identitario compreso nel già ampio spettro di azione del formatore-orientatore. La domanda inoltre sottende il nesso formazione-relazione-identità e soprattutto inizia a verificare quanto i docenti siano pronti a un discorso sulle diverse forme del racconto di sé e quindi sulle diverse forme del fare relazione e formazione. Proprio in questo senso infatti la domanda Il ricorso alle nuove tecnologie della comunicazione facilita l’espressione del proprio mondo interiore? La “naturale” competenza digitale rende più comunicativa la classe? rimette al centro un discorso sulla multimedialità e sulla multisensorialità come orizzonti molto ampi dentro cui il docente può muoversi legittimando l’uso di tutti i linguaggi possibili e riconoscendosi nelle potenzialità costruttive e decostruttive del digitale .

In tal senso l’ipotesi aggiuntiva relativa alle domande precedenti riguarda la legittimità di una didattica orientativa, capace di attivare un positivo processo di ricerca di significato coniugata al sé.

Nel solco di questa ipotesi di lavoro, da intendersi anche in termini di ‘carica autobiografica del conoscere’ , sono da considerare anche le domande: È opportuno affrontare in un’aula scolastica la questione dell’identità?; Come si manifestano le storie? Solo attraverso l’autobiografia e il racconto in prima persona?; Fai entrare le storie dei tuoi alunni nelle attività didattiche? Se sì, come?: l’ipotesi di un orientamento che fa ritorno alla formazione e nella formazione si insedia perché proprio nel processo formativo si possa dare spazio alla domanda di senso che ciascuno porta con sé e rivolge alla propria esistenza, è stata modulata attraverso queste domande e con l’ausilio delle sequenze del film che lasciano emergere le potenzialità e pure le difficoltà di una didattica orientativa.

Bibliografia

Batini, Federico-D’Ambrosio, Maria, 2008, Riscrivere la dispersione. Scrittura e orientamento narrativo per la prevenzione, Napoli, Liguori.

Batini, Federico-Giusti, Simone, a cura di, 2009, Costruttori di storie. Quaderno di lavoro II convegno nazionale sull’orientamento narrativo, Lecce, Pensa Multimedia.

Batini, Federico-Giusti, Simone, 2008, L’orientamento narrativo a scuola, Trento, Erickson.

Batini, Federico-Giusti, Simone, a cura di, 2009, Le storie siamo noi. Gestire le scelte e costruire la propria vita con le narrazioni, Napoli, Liguori.

Braidotti, Rosi, 1994, Soggetto nomade, Roma, Donzelli, 1995.

Braidotti, Rosi, 2002, In metamorfosi. Verso una teoria materialista del divenire, Milano, Feltrinelli, 2003.

Bruner, Jerome, 1986, La mente a più dimensioni, Roma-Bari, Laterza, 1997.

Bruner, Jerome, 1990, La ricerca del significato, Torino, Bollati Boringhieri, 1992.

Bruner, Jerome, 1996, La cultura dell’educazione, Milano, Feltrinelli, 1999.

Buber, Martin, 1939, Sull’educazione del carattere, tr. it., in: Buber, 1953.

Buber, Martin, 1953, Discorsi sull’educazione, tr. it. a cura di Anna Aluffi Pentini, Roma, Armando editore, 2009.

Cambi, Franco, 1986, Il congegno del discorso pedagogico. Metateoria ermeneutica e modernità, Bologna, Clueb.

Cambi, Franco, 1992, Decostruzionismo e pedagogia. Note ed appunti, in: “Studi di storia dell’educazione”, 1, 1992.

Cambi, Franco, 2006, Metateoria pedagogica. Struttura, funzione, modelli, Bologna, Clueb.

Cambi, Franco, 2007, L’autobiografia come metodo formativo, Roma-Bari, Laterza.

Campanile, Achille, 1928, Se la luna mi porta fortuna, Milano, Treves.

D’Ambrosio, Maria, 1999, L’agire narrativo: verso la costruzione di un “tessuto logico-sensoriale”in: De Sanctis, Ornella, 1999.

D’Ambrosio, Maria, 2003, Attori Scene Autobiografie. Un approccio narrativo ai media e alla formazione, Napoli, Liguori.

D’Ambrosio, Maria, 2006, (a cura di), Media Corpi Saperi. Per un’estetica della formazione, Milano, Franco Angeli, 2006.

D’Ambrosio, Maria, 2008, Discorsi sul divenire dentro i luoghi del contemporaneo, Napoli, Liguori.

D’Ambrosio, Maria, 2009, Riscrivere la dispersione. Verso una scuola ‘eroica’. O dell’orientamento narrativo, in: Batini-Giusti, (a cura di), 2009.

D’Ambrosio, Maria, 2010, Las meninas: metafore della conoscenza per una teoria della formatività, in: Gily, 2010.

de Cervantes, Miguel, 1605, Don Chisciotte della Mancia, tr. it., Milano, Biblioteca Universale Rizzoli.

De Sanctis, Ornella, 1999, (a cura di), Orizzonti multimediali della formazione, Napoli, Liguori.

De Sanctis, Ornella, 2009, (a cura di), Immagini dal presente, Napoli, Liguori.

De Sanctis, Ornella-D’Ambrosio, Maria, 2011, a cura di, L’orientamento nei processi formativi, Napoli, Liguori.

Derrida, Jacques, 1967, La voce e il fenomeno. Introduzione al problema del segno nella fenomenologia di Husserl, tr. it. Milano, Jaca Book, 1968-2010.

Derrida, Jacques, 1967, Dall’economia ristretta all’economia generale. Un hegelismo senza riserve, in: Derrida, 1967, La scrittura e la differenza, tr. it., Torino, Einaudi.

Formenti-Gamelli, (1998), Quella volta che ho imparato. La conoscenza di sé nei luoghi dell’educazione, Milano, Raffaello Cortina.

Foucault, Michel, (1988), Tecnologie del sé, tr. it., Torino, Bollati Boringhieri, 1992-2000.

Foucault, Michel, 1966, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1998.

Gily, Clementina, 2010, (a cura di), Arte e formazione, Napoli, Scripta Web.

Goethe, Johann Wolfgang, 1790-1808, Faust e Urfaust, vol I, Milano, Feltrinelli, 2009.

Jedlowski, Paolo, 2009, Esperienza, narrazione e vita quotidiana, in: Batini-Giusti, 2009.

Mariani, Alessandro, 2000, La decostruzione e il discorso pedagogico. Saggio su Derrida, Pisa.

Morin, Edgar, (1965-1999), Introduzione a una politica dell’uomo, Roma, Meltemi, 2000.

Morin, Edgar, (1999 a), I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Raffaello Cortina, 2001.

Morin, Edgar, (1999), La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Milano, Raffaello Cortina, 2000.

Morin, Edgar, (2001), Il Metodo. L’identità umana, Milano, Raffaello Cortina, 2002.

Mortari, Luigina, 2003, Apprendere dall’esperienza. Il pensare riflessivo nella formazione, Roma, Carocci.

Mortari, Luigina, 2006, La pratica dell’aver cura, Milano, Bruno Mondadori.

Onfray, Michel, 1993, La scultura di sé. Per una morale estetica, Roma, Fazi, 2007.

Papini, Giovanni, 1947, Don Chisciotte, in: Ritratti stranieri, Firenze, Vallecchi.

Serres, Michel, (1991), Il mantello di Arlecchino. Il ‘terzo-istruito’: l’educazione dell’era futura, tr. it., Venezia, Marsilio, 1992.

Virginia Woolf, 1929, Una stanza tutta per sé.

Zambrano, Maria, 1977, Chiari del bosco, tr. it., Milano, Bruno Mondadori, 2004.